Rapimento per disintossicare il figlio: così l’imprenditore tarantino chiedeva aiuto al clan

L’amore di un padre verso il proprio figlio può essere sconfinato, fino ad assumere contorni poco legali. Questo il quadro illustrato dall’ordinanza di custodia cautelare con cui il gip di Taranto ha disposto la detenzione in carcere, in attesa del processo, per tre membri della famiglia Scarci (Andrea, Giuseppe e Luciano) e gli arresti domiciliari per Pietro, fratello del defunto boss Francesco.

Secondo le indagini, condotte dalla DDA di Potenza e confluite nell’operazione “Mare Nostro”, il clan sarebbe un riferimento “per la risoluzione di controversie, la commissione di azioni illecite e per la richiesta di ‘protezione'” nella provincia di Taranto.

Un’influenza dominante conosciuta anche da imprenditori e professionisti del capoluogo ionico. Gli inquirenti, infatti avrebbero captato un incontro tra un membro della famiglia Scarci e un imprenditore tarantino. Quest’ultimo si sarebbe rivolto al clan per “liberare” il figlio dal demone della dipendenza dalla droga.

Secondo gli atti d’indagine, l’imprenditore avrebbe chiesto alla casata di inscenare il rapimento del figlio, per poi segregarlo contro la sua volontà e vietargli l’uso di sostanze stupefacenti. Assistenza dei bisogni essenziali e nient’altro: questo il compito del clan, stando alle intercettazioni ambientali rilevate in un bar della città di Taranto. Uno scenario drastico ma essenziale nei pensieri annebbiati di un padre mosso dalla disperazione. Una modalità atipica per evitare che il figlio possa ricadere nel tunnel della droga grazie all’apporto e all’intercessione del clan.

Come si legge nell’ordinanza, l’imprenditore avrebbe fatto leva su un precedente. È il caso di un medico tarantino che, stremato per le condizioni del figlio tossicodipendente, si sarebbe appellato alla famiglia Scarci per “sequestrarlo terapeuticamente” e disintossicarlo. Un iter già consolidato nel modus operandi degli indagati, dunque, riportato a galla dall’imprenditore tarantino nel corso del colloquio.

Proprio sul controllo delle attività illecite, in particolare inerenti il traffico marittimo delle coste ioniche di Puglia e Basilicata, si sarebbero concentrate le indagini della DDA di Potenza. In particolare a diversi membri della famiglia Scarci, imparentata con il ramo lucano “Scarcia“, è contestato il reato di associazione di tipo mafioso, previsto dall’art. 416 bis del codice penale. Per cui, il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto necessario apporre le misure cautelari verso gli indagati, paventando l’ipotesi di reiterazione del reato per la modalità di svolgimento delle condotte illecite.

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