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Liste d’attesa, regioni all’attacco e pronte al ricorso

L’intendimento prioritario è trovare un punto di condivisione che possa portare a un accordo con il governo. Ma intanto, trapela la possibilità che in caso di approvazione così com’è del decreto sulle liste d’attesa, tutte o quasi le Regioni siano intenzionate a presentare ricorso. Non è questa la soluzione auspicata dagli enti territoriali ma il silenzio del governo sulle modifiche proposte dalla Conferenza delle Regioni non viene certo interpretato come una disponibilità al dialogo.

Non si tratta di un capriccio istituzionale o di un aspetto marginale di un decreto, ma di una legge ordinaria che, secondo le Regioni, andrebbe direttamente a ledere le loro competenze. L’articolo 2 del decreto sulle liste di attesa prevede che il ministero della Salute possa, anche con funzioni di polizia giudiziaria, effettuare attività di controllo direttamente sull’attività delle aziende sanitarie per individuare le ragioni delle lunghe liste di attesa. Già su questa funzione sorgonomalumori, e si paventa il rischio “di accavallamenti e confusioni tra competenze di natura nazionale e quelle
regionali”. Individuare ma non intervenire: il ministero -questa la critica degli Enti locali- si limiterebbe a indicare dunque gli aspetti da migliorare, i correttivi da apportare, demandando alle Regioni l’onere di risolvere i vari problemi. Tutto questo considerando che la parte organizzativa delle aziende sanitarie spetta, appunto, ai territori. Soprattutto, però, le Regioni temono un pericoloso ridimensionamento delle proprie competenze.
Perché un eventuale intervento oggi dell’autorità centrale crea un inedito precedente: il timore è che “domani Roma potrebbe
interferire in altri settori”.

Una manovra a tenaglia: viene fatto osservare che da un lato un intervento per risolvere eventuali problemi rischierebbe di avviare lunghi contenziosi tutti a carico delle Regioni; dall’altro, queste non potrebbero tirarsi indietro dovendosi accollare la responsabilità e la necessità di intervenire,
appunto, e sulla scorta delle indicazioni dell’autorità centrale. Le Regioni non intendono andare allo scontro: concordano con il monitoraggio ma sostengono che questo vada articolato in uno spirito di maggiore condivisione. In questo senso c’è la volontà di lavorare insieme per arrivare a una
soluzione. Ma non a ogni costo: la determinazione degli enti regionali è palese: in sede di Conferenza delle Regioni, ad esclusione del Lazio, tutte le altre hanno votato contro il decreto così com’è. E ora sono pronte, quasi tutte, al ricorso.

Ieri sull’argomento è intervenuto il Presidente della Conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga, che, proprio “in una logica di assoluta alleanza istituzionale e lealtà collaborativa”, ha reso noto di aver chiesto non l’abolizione dell’articolo 2 ma una sua riformulazione. “Abbiamo proposto di
formulare un emendamento che crei nuclei di controllo e valutazione all’interno delle singole Regioni”. Riformulazione che è già stata consegnata al governo. “Ci auguriamo si possa continuare a discutere, auspichiamo una intesa”, ha sottolineato Fedriga. Sulla vicenda è intervenuta anche l’opposizione che, per bocca del presidente dei senatori del Pd Francesco Boccia, accusa la maggioranza di essere “evidentemente nel caos, e non
solo a causa di questo decreto”, invitando Giorgia Meloni a ritirare il provvedimento e il governo a discutere in Parlamento. “Noi abbiamo le nostre proposte, contenute nel ddl Schlein e riproposte, attraverso emendamenti, al decreto e siamo pronti a discuterne”.

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