Puglia- Con una nota congiunta gli avvocati Giuseppe Losappio, Avvocato, Professore ordinario di diritto penale presso UNIBA,
Pasquale Annichiarico, Avvocato, Presidente della Camera penale di Brindisi “O. Melpignano”, Giancarlo Dei Lazzaretti, Avvocato, Presidente della Camera penale di Lecce,Giangregorio De Pascalis, Avvocato, Presidente della Camera penale di Trani “G.Rocca”, Marisa Savino, Avvocata, Presidente della Camera penale distrettuale di Bari, Giulio Treggiari, Avvocato, Presidente della Camera penale di Capitanata, Vincenzo Vozza, Avvocato, Presidente della Camera penale di Taranto, commentano e ricordano il più grande errore giudiziario del nostro Paese: il caso Tortora.
“Anni ’80, il venerdì sera, in prima serata, andava in onda “Portobello”, un programma televisivo di grande successo, molto premiato dall’auditel. Il conduttore era un giornalista, classe 1928, di origini genovesi, con uno stile pacato, elegante, a tratti affettato, già molto noto – aveva diretto tra l’altro la Domenica sportiva – reso popolarissimo dalla “trasmissione”, ispirata al celebre mercatino londinese. Il 17 giugno 1983, all’apice di questa parabola, Enzo Tortora fu arrestato con l’accusa di essere un trafficante di sostante stupefacenti affiliato alla Nuova camorra organizzata (NCO). Tanto “pubblico” era il personaggio, tanto spettacolarizzate furono le circostanze del fermo. Dalla Legione carabinieri di Roma, Tortora uscì con le manette ai polsi e la scorta di due militari, mentre una ressa di fotografi e reporter riprendeva la scena. Fu una vera e proprio gogna che sarebbe proseguita sulle pagine dei media, gran parte dei quali – l’ha ricordato di recente il critico televisivo del Corriere della Sera, Aldo Grasso – si schierarono contro Tortora. Furono in pochi a sostenere l’innocenza del giornalista o perlomeno a ricordare la presunzione di garanzia scolpita nella Costituzione. Enzo Biagi, per esempio. Esattamente una settimana dopo l’arresto, il 24 giugno 1983 pose al paese un interrogativo semplice e dilaniante “E se Tortora fosse innocente?” Gaia, una delle tre figlie del “presentatore”, ha dichiarato di non essere mai riuscita a spiegarsi «l’accanimento mediatico» che si scatenò dopo l’arresto, chiosando «una certa informazione ha contribuito a stroncarlo». Questo aspetto spesso viene trascurato nei resoconti della vicenda. Eppure, quel linciaggio, non meno degli errori giudiziari che Tortora dovette patire, restano una testimonianza indelebile della tragedia che incombe sulla giustizia penale quando travolge come un’onda di piena il destino di un uomo, sia o meno colpevole. Tortora era innocente e non doveva essere arrestato. E questo rende più atroci i sette mesi di carcerazione (preventiva, all’epoca si chiamava così), i molti mesi di arresti domiciliari a cui fu sottoposto: cinque prima della sentenza di primo grado, quasi nove dal 31 dicembre 1985 alla sentenza della Corte di appello di Napoli che il 15 settembre 1986 ribaltò la condanna a 10 anni di reclusione che Tortora aveva cominciato a scontare rinunciando alla immunità di cui poteva godere nella veste di europarlamentare, dopo l’elezione nel 1984, nelle fila del partito radicale. La tragedia giudiziaria di Enzo Tortora, quindi, parla in primo luogo della inesauribile “passione per la punizione” (Fassin) che percorre l’animo umano e che la democrazia ha solo in parte attenuato. È una costante con molte e complesse motivazioni, che, in ogni caso, si intrecciano con l’anima nera della giustizia penale. Come scrisse Paul Ricouer «anche le operazioni più civilizzate della giustizia, in particolare nella sfera penale, mantengono ancora il segno visibile di quella violenza originale che è la vendetta». Abbiamo educato le forme del supplizio, rinunciando alle atrocità più palesi e sanguinolente, ma gli istinti godono ancora della mortificazione in pubblico del capro espiatorio nel rito collettivo di espiazione e catarsi della walk of shame (passeggiata della vergogna) nel quale conseguiamo una rassicurazione a buon mercato: assistendo alla mortificazione dell’altro siamo rassicurati di essere totalmente diversi rispetto allo stesso colpevole. Ma la tragedia di Enzo Tortora parla anche di molto altro. La spettacolarizzazione degli arresti, dei processi, nei casi giudiziari che dilagano nel circuito della “giustizia mediatica” (Manes), non di rado corrisponde ad iniziative investigative, provvedimenti cautelari, giudizi che travolgono le garanzie e le regole del giudizio incardinate nella Costituzione e nel principio del giusto processo. Certo è che la retorica giustizialista e colpevolista a prescindere che percorse quella vicenda si espresse in una duplice ghiera di errori. Una tenaglia soffocò la giustizia e la vita di Enzo Tortora che si sarebbe spento il 18 maggio del 1988 per un male incurabile. Il primo elemento a stritolare la verità fu la credibilità attribuita ai “pentiti” che accusavano il celebre presentatore. Tutti personaggi assolutamente inattendibili mentre era troppo evidente che il coinvolgimento di Tortora nell’indagine rispondeva ad un mero calcolo di convenienza. Giovanni Pandico, detto “o Pazzo”, forse schizofrenico, il 19 giugno 1970, negli uffici del municipio di Liveri, sparando a raffica, aveva ferito gravemente un consigliere comunale, ucciso un agente della polizia e un impiegato solo perché gli aveva chiesto qualche informazione – a suo avviso di troppo – per il rinnovo dell’atto di nascita. Pasquale Barra, detto “o ‘nimale”, coinvolto in 67 omicidi, molti dei quali in carcere, fu il perno dell’operazione contro la NCO nella quale venne coinvolto il “presentatore”. Aveva fornito agli investigatori una lista di oltre 800 (presunti) camorristi parlando di Tortora solo nel diciottesimo interrogatorio del 19 aprile 1983. Come dire, la ciliegina sulla torta dell’indagine, l’elemento che mancava per catalizzare l’attenzione di un pubblico più vasto di quello interessato ai fatti della cronaca giudiziaria. Oltre a quelle contro il “presentatore” molte delle accuse del “pentito” si rivelarono infondate e nel corso dell’istruttoria si scoprì che Barra aveva approfittato della sua “posizione” per tentare estorsioni ai danni di pregiudicati o di incensurati, minacciando di coinvolgerli nell’indagine. Come se non bastasse, era emerso abbastanza presto che Barbaro – detenuto a Porto Azzurro con Pandico – nutriva ragioni di risentimento nei confronti di Tortora perché aveva acquistato 16 centrini al prezzo di 5.000 l’uno ma non era riuscito a venderli tramite la trasmissione Portobello e per questo era “in causa” con la RAI e attribuiva al presentatore l’insuccesso della operazione. Gianni Melluso, detto “il bello” o “cha cha cha”, molti anni più tardi, nel 2010, in un’intervista all’Espresso del 2010 avrebbe “confessato”: «Lui (Tortora, n.d.r.) non c’entrava nulla, di nulla, di nulla. L’ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l’unica via per salvarmi la pelle». La verità fu calpestata anche dalla totale assenza di riscontri esterni e obiettivi. Si volle trascurare qualsiasi vaglio della credibilità delle dichiarazioni rese da questi pentiti. Una verifica che è sempre necessario nella valutazione di qualsiasi affermazione etero o persino auto-accusatoria ma, in questo caso, era davvero più necessario che mai. All’opposto si volle reggere l’accusa che Tortora fosse un membro della Nuova camorra organizzata enfatizzando l’annotazione contenuta nell’agenda sequestrata alla camorrista Assunta Catona di due numeri di telefono che, in realtà, non erano del “presentatore” ma di un omonimo commerciante di Caserta. L’errore giudiziario a queste condizioni era persino inevitabile. Come ha scritto Antonio Bevere, la “vicenda Tortora” «pullula di equivoci, di scambi di persone, di farseschi infortuni che normalmente il cittadino incontra nella commedia portata sugli schermi e sui palcoscenici». Certo il sistema giudiziario seppe correggersi sia pure in ritardo ma non fino al punto di definire un percorso di responsabilizzazione dei magistrati che avevano cavalcato con foga l’accusa contro Tortora. Anzi, Felice Di Persia, veemente accusatore del presentatore, fu persino eletto al Consiglio superiore della magistratura e in quella sede promosse pesanti censure nei confronti dei giudici della corte territoriale, definendoli incauti, disinvolti, ipnotizzati, succubi di pressioni esterne. Davvero aveva ragione Eschilo: «La bilancia della giustizia, improvvisa oscura alcuni nella luce del giorno; altri attende nell’ora che il sole, incontra la tenebra, e li copre l’affanno; altri avvolge una notte senza fine».
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